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Il Jazz e le nuove generazioni – Intervista ad Ettore Fioravanti

31 gennaio 2011

Se parliamo di jazz, la prima cosa che ci viene in mente possono essere i grandi nomi che ne hanno la fatto la storia, oppure le grandi formazioni che dominano il panorama di questo periodo. Ciò che, invece, abbiamo intenzione di fare noi, oltre a segnalarvi i grandi nomi e i grandi concerti, è di dare uno spazio alle giovani generazioni che in questo periodo stanno imprimendo una ventata di rinnovamento. Ebbene sì, di giovani talenti che si stanno avvicinando a questo genere musicale ce ne sono veramente tanti e per questo ci siamo detti: “Perché non dargli uno spazio?” Quindi, iniziando questa settimana, inauguriamo una nuova rubrica che chiameremo “Jazz New Generation” con un’intervista ad un musicista, Ettore Fioravanti, che già abbiamo avuto modo di apprezzare dal vivo al 28divino (per vedere il live clicca qui). Lui, a contatto con i giovani ci sta davvero tanto, non solo perché insegna al conservatorio, ma anche perché ci suona…

Ettore, tu sei un musicista che sta molto a contatto con i giovani. Quali sono, secondo te, le nuove tendenze musicali delle nuove generazioni?

Partendo dal fatto che ho 53 anni e non sono più tanto giovane, posso dirti che, oggi più che mai, c’è una interessantissima volontà di fusion, ma non nel senso limitante della parola che è stato dato alla musica elettronica e degli anni 80. Diciamo che c’è una tendenza a mischiare i generi senza vergogna e senza particolari scrupoli, con una volontà che rientra nel proprio gusto. Vedo ragazzi di 25 ani che suonano tranquillamente i Nirvana con spirito jazzistico, o viceversa la musica di Parker con spirito rock, mettendoci dentro la loro esperienza di musica classica o di altra provenienza. In più è aumentata la competenza del linguaggio jazzistico perché sono migliorate le didattiche nei conservatori e nelle scuole. Diciamo che la gente che suona jazz lo studia e lo perfeziona in modo organico.

Ho notato ultimamente, ascoltando nuovi musicisti che si avvicinano a questo genere, che si tenta di fondere diversi linguaggi con il jazz. Mi riferisco soprattutto alle sonorità psichedeliche che spesso ho notato nei più giovani. E’ una tendenza che hai notato anche tu?

Si, perché psichedelica mi fa venire in testa i gruppi degli anni 70, ovvero quelli che ho iniziato ad ascoltare io. Quel tipo di suono è stato recuperato positivamente senza che ci si ponga il problema di vederlo legato ad uno stile che può essere considerato vecchio o inadatto. Da questo punto di vista la mia generazione era più casta e mischiava meno i generi sul piano delle sonorità, mentre oggi mi sembra che non esista più questa vergogna.

Nel tuo quartetto ci sono anche degli elementi giovani come Marco Bonini e Francesco Ponticelli. Per un musicista come te, quanto è importante confrontarsi con le nuove generazioni?

E’ fondamentale perché ti accorgi che loro non hanno un senso di riverenza non tanto nei miei confronti, ma su come fare musica insieme. Uno come Ponticelli, che ha 25 anni, e Marco, che ne ha un po’ di più, quando suonano insieme a me si pongono sullo stesso piano… E meno male! Sono contento, anche perché spesso vengono fuori delle linee musicali che non sono dettate da me. Questo mi piace molto perché si può discutere di musica quanto vuoi, ma quando ti metti a suonare insieme è tutta un’altra cosa.

E come hai conosciuto Marco e Francesco e Marcello, il quarto componente del quartetto?

Io avevo già suonato con Marcello Allulli in trio con Siniscalco. Marco Bonini era iscritto al conservatorio di Frosinone, dove insegno, ed era uno studente. Invece, per quanto riguarda Ponticelli sapevo soltanto che era bravo, non lo conoscevo e lo ho semplicemente contattato.

E quanto si impara dalle nuove generazioni?

Moltissimo! Si impara molto soprattutto sul piano della freschezza. Inoltre una persona che suona da 40 anni come me in questo modo ha la possibilità di eliminare quelle sovrastrutture che si è creata in testa. È fondamentale quando hai che fare con dei figli o con degli allievi, perché smetti di pensare che hai sempre ragione.

Quindi, si potrebbe dire che stando a contatto con le nuove generazioni si ha la possibilità di reinventarsi?

Si, il reinventarsi deriva dal fatto che elimini un meccanismo. Infatti, quando vai avanti ti dai dei punti fermi che in un certo senso distruggi quando hai a che fare con persone nuove. In questo senso è vero, ti reinventi e ti rimetti in gioco.

E che ambiente si respira nel mondo della didattica?

Dunque, io insegno in conservatorio e quindi posso testimoniarti che c’è una la situazione molto vitale proprio perché le scuole stanno uscendo dallo stretto campo della musica accademica. Tutto questo permette a gente che si occupa di jazz, di rock e musica non accademica di avvicinarsi al conservatorio. E’ un rinnovamento che alcuni considerano negativo e che io, invece, considero molto positivo. In genere alcuni musicisti considerano negativo il fatto di studiare questa musica, lo vedono come sbagliato. In più gira molto l’idea che la musica jazz non vada studiata, ma io non sono d’accordo perché il jazz, come disciplina, anche se possiede un linguaggio e una pronuncia non insegnabili, ha delle regole e delle storie che sono sintetizzabili e comunicabili. I giovani, per l’appunto, sono capaci di fare questo e prendono le regole senza recepirle come un aut aut. C’è la freschezza, l’ingenuità, a volte la provocazione rispetto all’insegnamento applicato in un conservatorio che, ora più che mai, ha bisogno di rinnovamento. E’ come se fosse un frullatore energetico.

Quindi, in fin dei conti, tenendo presente le nuove generazioni potremmo dare un giudizio positivo?

Assolutamente positivo! Quando c’è un rinnovamento in atto e idee che si incrociano, o che a volte si scontrano, vengono fuori anche delle ferite, ma sono positive perché portano sempre nuovi stimoli. Il jazz ha bisogno di essere continuamente messo in discussione altrimenti diventi un museo, una statua di marmo fissa. Io dentro casa non metto la “Venere di Milo”, ci metto la lavatrice perché mi serve… Ci metto qualcosa che mi può servire per crescere.

Carlo Cammarella

foto di Roberto Panucci

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